Imparzialità, l’ho sempre ritenuta una parola vuota, priva di riflesso, afona, raccontare qualcosa stringendo un patto di sangue con questo vocabolo, vuol dire regalare delle parti di noi al vuoto, imbiancare i nostri pensieri, concedere noi stessi a quella spaventosa prospettiva della neutralità.  A questo termine, mi è sempre troppo spesso capitato di opporre la parola “intensità”, il saper graduare le sensazioni dalle punte più recondite a quelle più vertiginose, l’entusiasmarsi nella stupenda incapacità di saper gestire le proprie emozioni. Ecco se dovessi dare un significato all’esperienza che si può fare vivendo in prima persona, un festival “danzante” come Memorie Urbane, userei certamente questa.

Nel racconto di quello che può capitare, sono convinta che molti si ritroveranno, perché non è fondamentale, essere un addetto, un organizzatore o un artista per essere acciuffato da questo spettacolo macina vernice, basta avere occhi per guardare, equilibrio per stare tanto tempo con il naso all’insù, senso di vertigine al cospetto  delle immagini, ma soprattutto brama di stupore.

Sentire parlare di un festival di Street Art che si svolge a pochi chilometri dal posto in cui si abita, non aveva suscitato in me tanta curiosità, un “cosa avrà mai di tanto particolare” era stato il pensiero maturato dalla mia mente. Un ” cosa ci troveranno” la frase a caldo che aveva sedato in me ogni aspettativa; ma proprio il partire così priva d’interesse verso questa manifestazione ha sortito l’effetto contrario, il famoso colpo di scena, più ci si sforza di essere indifferenti ad un avvenimento e più questo ci attrae, potrebbe essere il giusto corollario descrittivo del mio atteggiamento.

L’impatto: Hyuro, donna minuta, dall’aspetto indifeso, gracile, che con un “muro” ti racconta la vita, non si esprime con colori forti e accesi, ma con tonalità fredde, eppure quanto calore e quanta intimità ci proietta addosso il suo lavoro, guardando Cycles semplicemente si riesce a guadare se stessi, la fase della vita alla quale si appartiene, la consecutio temporum che ci aspetta.

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Ecco come nasce l’entusiasmo, come cresce la fiducia in un evento del genere. Prima di lei, il presagio di incappare in qualcosa di magnetico, si era creato con Domenico Romeo. Per “riconoscerlo”, avevo fatto il grandissimo errore di cercare sul web il significato delle sue opere, molti riportavano la dicitura “calligrafico”, elemento che sicuramente rappresenta solo un puntino di una camaleontica costellazione d’idee, che vanno  oltre l’uso esclusivo di questa tecnica, e se fossi un’esperta, forse saprei direi di cosa si tratta, ma per me, dal primo momento quest’artista era stato in grado di catturare la luce, di darle diverse angolazioni emotive, ricreando un piccolo sistema planetario. Domenico Romeo si è impadronito del sole, come un Icaro vittorioso.

Mentre tutti sono all’opera, può capitare di fare la conoscenza con il duo dei Malabrocca, due ragazzi spagnoli, parlare con loro, vederli estasiati di fronte alla bellezza del paesaggio; i due regalano alla città di Terracina una miracolosa Madonna dall’aspetto convenzionale, ma dal volto “rimuovibile”, un vedo non vedo e una curiosa Alice nel paese delle meraviglie che fa da esperta culinaria, mentre a Gaeta degli umani/acrobati alla ricerca forsennata del tanto agognato campo Wi-Fi.

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Ritrovarsi di giorno ad aspettare che gli artisti finiscano, per strappare foto a testimonianza del proprio “io c’ero”, e di notte, partecipare alle attività collaterali di Memorie Urbane, estasiarsi ascoltando, prima il musical-cineamatore Cabeki e poi la band al Fulminato di Mercurio, i Fast Animals and Slow Kids i quali, insieme al muro di pura potenza sonora, erto dai Pan del Diavolo accompagnano la preparazione delle opere di Martina Merlini e Moneyless.

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La prima in grado di realizzare a Terracina quello che potrebbe essere un Totem, tutto linee e geometrie dai colori ricchi di entusiasmo, su ogni lato, Martina, crea un simbolo diverso come trovarsi di fronte ad un idioma, ad una nuova lingua da scoprire, ad un linguaggio che solo lei conosce e sul quale noi possiamo solo limitarci a formulare delle ipotesi dettate dalla nostra indole; su ogni muro c’è un nostro individuale desiderio da poter invocare.

Il secondo che con i suoi cerchi concentrici, su un immenso muro della città di Gaeta, sembra fare un richiamo ad un’ordinata entropia, ad un effetto stroboscopico, nell’intento di voler inviare un messaggio ad un mondo sconosciuto, per poi affidare al centro storico di Terracina, con la sua imprevedibile corda, quasi un oggetto alieno. Un Frammento di meteorite.

Alice Pasquini, in arte Alicè, l’avevo già scoperta, tutti mi avevano avvisato, l’organizzatore e fruitori dell’evento, si erano sempre espressi in maniera entusiasta circa il suo operato, preparando la grande attesa che lei non disillude, colori, occhi, implosioni dell’anima che si proiettano all’esterno, quotidianità e profondità dei gesti che sparano direttamente al sistema limbico: una bambina che ti fissa mangiando un grondante gelato, con occhi carichi d’incontaminata forza, a descriverla così questa immagine sembrerebbe svenevole, ma la leziosità è un elemento non contemplato da quest’artista; raccontare con parole questo piccolo gioiello sarebbe fare un torto a lei, Alicè, alla sua capacità di riconoscere il mondo che ci circonda, traducendo tutto quello che fa, mescolando realtà e incantesimo.

Dagli occhi del lavoro di Alicè si può passare, sempre grazie agli eventi collaterali connessi a Memorie Urbane, a quelli delle donne immortalate dalla macchina fotografica dell’artista JR. Ritrovarsi a guardare un lungometraggio in francese, Women Are Heroes, capirne poco e niente, scovarvi magie di luci e d’iridi, realizzare che più che di eroine, termine spesso abusato e che a volte può incorporare una fatalità di eventi, le donne hanno il coraggio, la forza della verità, il potere di ricostruire ciò che viene distrutto, la capacità di dominare il dolore di incanalarlo nella continuazione del percorso chiamato vita; oppure ritrovarsi ad essere presi a schiaffi dalla drammatica e inaspettatamente dignitosa vita della più grande discarica del Brasile, dove Vik Muniz ha vissuto per tre anni girando Waste Land, documentario che da un lato commuove e suscita ammirazione per questi uomini e donne che ogni giorno si arrampicano su cumuli di spazzatura, ma che dall’altro apre l’interrogativo sulla manipolazione mediatica di una situazione drammatica, la mercificazione delle emozioni, spente le telecamere e andato via l’artista non è sbagliato chiedersi cosa rimane ed a chi serve di più tutto quel clamore.

Scoprire Lucamaleonte è un incontro pregevole, ci si ritrova nel mondo dello Stencil, area artistica così particolare, s’impatta con strati e strati di grande manierismo, ci si confronta con un muro dallo sfondo nero stranamente molto piacevole per gli occhi, si denota un lavoro così curato che sembra di paracadutarsi direttamente in uno dei periodi storici più floridi per l’ingegno e la raffinatezza: il Rinascimento. Ci sono una ricercatezza ed un gusto per classico notevole, più che un artista Lucamaleonte sembra un accademico dell’arte.

Sempre per quella nota di non imparzialità precedentemente descritta, si arriva a spendere elogi per le mastodontiche opere di DALeast e Faith47. La prima un incontenibile Zeppelin, un dirigibile, che per dimensioni e per la rappresentazione di una vera e propria scaletta ad altezza strada, ha un alone di realtà maggiore di qualsiasi opera presente in questo Festival. La possibilità di fuga. Pallone aerostatico che sembra in lontananza essere sorretto nel suo viaggio da uno stormo di uccelli che lo tiene su e lo conduce; la natura in soccorso dell’uomo o semplicemente una sorta di mia personale rivisitazione visionaria.

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Faith47 e i suoi cigni-fenice, opera che riporta alla mente, grazie alla frase “Tu resterai con me fino all’ultimo attimo” dipinta sul muro da lei, con la volontà di farla sembrare una scritta preesistente rispetto al suo lavoro, consolida un’atmosfera alla Nouvelle Vague, un richiamo al film di François Truffaut “Fino all’ultimo Respiro”. Nel peccare d’intensità la definirei l’opera più struggente tra quelle presenti alla manifestazione. Osservarla di notte ha un effetto corroborante, quel colore ocra, amplificato dalle luci notturne, rende quest’opera davvero emozionale.

Dulcis in Fundo, Borondo e Sbagliato, partendo dal secondo quello che si può dire di lui, è che in tema di originalità non ha paragoni, si potrebbe definire un urbanista, un’artista che ridefinisce gli spazi, una sorta di architetto illusionista, grazie all’uso della tecnica del Poster cambia i connotati a facciate desolate, a muri spenti, regala ambienti confortevoli, svela nuove prospettive, crea dei rimaneggiamenti all’ambiente, per scatenare dei cambiamenti in noi.

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Borondo invece, sarebbe bello appellarlo esistenzialista. Trovandosi a passare per Gaeta, il primo pensiero si rivolge, ammirando la sua opera, ad uno scarnificante romanzo. Due uomini ed in mezzo loro quella che sembrerebbe essere una casa, il Fil Rouge di un’enigmatica trama. Spigolosità ed intarsi, la mente costruisce il loro cosa si diranno, cosa pensano, cosa tramano, mistero e minimalismo a fortificarsi. Gli occhi visibili solo in un soggetto dei due hanno l’apprensione e lo stesso arrovellamento mentale del Raskol’nikov del Delitto e Castigo di Dostoevskij.

Ultimo, Sam3, artista spagnolo che sembra preferire la nemesi della luce: l’oscurità. Il suo lavoro, forse per dare omaggio all’aspetto epico dei luoghi presso il quale si è ritrovato, richiama Odisseo e la mappa stellare usata per orientare il suo viaggio verso la patria. Usa come sfondo il colore nero, eppure quei piccoli puntini di luce del grande firmamento da lui realizzato, hanno una forza incommensurabile, segno che l’ombra non potrà mai vincere la luce. L’immagine sembra essere volutamente capovolta, la nave di Ulisse minuta in cima e la costellazione di Orione che dovrebbe essere in alto, in realtà sembra formare il mare, si naviga grazie alle stelle.

In tutto quest’andirivieni di persone, idee, nuove influenze, questo festival, si è circondato di “menti curiose”: storici dell’arte, musicisti, blogger, giornalisti, fotografi o semplicemente di esseri umani, ha esteso un invito al mondo non addetto alla materia, l’ha scelto per partecipare, e gli ha conferito il posto più importante quello di “giudice- spettatore” gli ha chiesto di esprimere la sua opinione per bella o brutta che fosse. Memorie Urbane è un’esperienza da fare, non serve essere esperti, bisogna avere la giusta dose di entusiasmo e di scetticismo, considerare tutto quello che è rappresentato come opera d’arte e non come l’abbrutimento di una città, opporre la volontà al decadente.