La settimana artistica di Memorie Urbane sembra essersi collocata all’interno di una magica congiuntura astrale. Anche in questi giorni festivi e saturi di colesterolo c’è stato un grande via vai di artisti. La macchina è avviata, il motore ben oliato ed ora sembra non fermarlo più nessuno.

Stare dietro a tutto è talmente difficile che bisognerebbe essere come Il dottor Manhattan dei Watchmen, non so se avete presente. Essere ovunque e il suo contrario. O altrimenti munirsi di una nave stellare, di un piccolo Enterprise per coprire tutte le distanze. Io non ho questi mezzi, ho solo un piccola autovettura, ed ho fatto del mio meglio.

Ad Arce, piccolo paese del frusinate, si è svolta una delle presentazioni più calorose a cui abbia mai assistito ed ho pensato che non sono i grandi luoghi, le epiche manifestazioni, le grandi mostre ad essere sempre interessanti e belle. In questo piccolissimo paese i ragazzi di 56K hanno creduto in un progetto, lo hanno sposato ed hanno fatto in modo che a tenerci fosse un’intera popolazione. Ben venga il provincialismo, se riesce a creare tanto coinvolgimento.

In questo magico luogo è sbarcato Ernest Zacharevich aka Zachas, dopo una breve tappa a Gaeta. Nonostante la giovane età trovo che sappia il fatto suo, anzi oserei dire che usa una sorta di metempsicosi artistica: fa migrare le sue opere negli oggetti del quotidiano e poi le anima; inghiotte elementi di uso comune preesistenti al suo lavoro e li fa diventare attori. Su di un muro nella zona di Serapo ha immortalato due “bambini sicari” vestiti di tutto punto, muniti di preziosi super liquidator, con bandiera lego-pirata. Pascoli rivedrebbe il suo “fanciullino”, io ci vedo un’artista che riesce a guardare le cose con uno sguardo critico al temperamento serio che il mondo d’oggi ci chiede restituendoci un po’ lo scettro del divertimento fine a se stesso. Non vi meravigliate poi se passando per Arce, o magari capitandoci apposta, troverete quelli che io chiamerei dei “gemelli” alle prese con una struttura architettonica ed i suoi elementi. Provate a pensarlo, lasciati soli ognuno troverebbe il suo modus di “tastare” ciò che li circonda. Uno si metterebbe alla prova stando in piedi con una gamba sola, l’altro si aggrapperebbe ad un solido appiglio per vedere quanto è forte, e il terzo se ne starebbe lì a guardare il panorama ed a fantasticare, forse penserebbe che Ernest Zacharevich, il suo dottor Frankenstein, ha la stessa redarguente ironia dei brani dei The Magnetic Field. Nello specifico io ho pensato al brano “A Chicken With Its Head Cut Off”.

A noi di Memorie Urbane si è unita anche la Aus+Galerie di Latina nelle persone di Giorgia Capurso e Simone Guarda. Due folli amanti dell’arte che un giorno si, e l’altro pure, mettono a disposizione il loro luogo abitativo per mostre, eventi, presentazioni allo scopo di far diffondere e proliferare il “virus” chiamato cultura. Hanno appoggiato la scommessa di Davide Rossillo e cominciato ospitando nella squadrata città di Latina niente meno che Etnik. A lui ho dedicato il titolo del mio commento. Al suo modo di percepire gli spazi. Alessandro, questo il suo nome, era stato già a Fondi. Ed è stato davvero divertente sentire mio fratello comunicarmi che in quella cittadina lui che vi era passato di sfuggita aveva visto una cosa “senza paragoni”. Mi ha detto “non puoi capire”, ed a me veniva da ridere. Ha aggiunto che transitando di lì altre volte era tutto così banale, mentre ora scorreva nuova linfa. Dopo aver visto quel lavoro, un luogo pieno di discount e negozi vari, l’ho pensato come una scheggia impazzita. Case che esplodono perché delle radici si stanno insinuando al loro interno. Natura che si esprime come se fosse un vero e proprio tornado, e che sembra dirci: “potrete buttare giù quanti alberi vorrete, ma noi ci riprenderemo quello che è nostro”.

Su Etnik lo confesso, sono di parte. Non appena mi sono trovata sotto l’enorme muro che si aggiungeva a riqualificare a Latina, ha sorriso, non solo a me, dall’alto della sua posizione dalla gru. Ha fatto un cenno di saluto a tutti quelli che lo stavano osservando. Sorgerebbe spontaneo chiedersi come mai questa cosa mi abbia tanto colpito. Beh, vi capita mai di accennare un sentimento di vicinanza a chi vi sta attorno? Trovate qualcuno che ricambi anche solo con lo sguardo un vostro gesto bonario.

Siamo talmente alienati che ci esprimiamo solo con le faccine dei telefonini, manchiamo di confidenza, ci scrutiamo meccanicamente e con condizionamento. David Foster Wallace parlava di ” sorriso professionale” e così lo definiva: ” la strenua contrazione dei muscoli peribuccali con il parziale coinvolgimento degli zigomi – un sorriso che non ce la fa ad arrivare agli occhi e che non è altro che un tentativo calcolato di favorire gli interessi personali di chi sorride facendo finta che gli piaccia colui che riceve il sorriso”.

Il sorriso di Etnik non era così, era spontaneo. Ma non è questo che rende speciale un artista, questo lo rende umano.

Il suo grande muro a Latina è la schematizzazione del suo nome in versione tridimensionale, ma non solo: su ogni lettera ha rappresentato una città, compattato un crogiolo di culture. Durante la serata di presentazione della Graphic Novel ispirata a lui ed al suo lavoro, edita da Inward, ho avuto il fugace piacere di conversarci e non vi nego che il sentir parlare del suo percorso, il suo giungere dal graffitismo alla street art, la sua concezione della città, capace di isolare gli esseri umani gli uni dagli altri mi ha fatto pensare di avere di fronte una persona dalle opinioni davvero solide. Mi ha fatto capire che la mia idea che i vari “pezzi” dei suoi lavori si dessero forza l’uno con l’altro non era giusta. Ogni tassello si annulla con l’altro, le città si annientano, il tessuto urbano ingrigisce, se non oscura, disabilita il colloquio umano. Però c’è la natura, che con forza cerca di riprendersi ciò che gli è stato tolto.

Etnik ha il dono della disponibilità. Città future, terza dimensione, visioni ampie. A me sembra tanto uno che ha ben chiaro quello che non vuole che il suo orizzonte diventi: cemento e ruggine.

Ho pensato a Calvino perché nel libro che dà il titolo al mio sproloquio settimanale alla fine scrive” L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Non so se questo artista abbia letto questo libro ma il tentativo più “rischioso” rappresenta tanto il suo modo di lavorare.

Avevo un altro artista da descrivere Millo ma il suo lavoro è troppo grande e molto importante per poterlo relegare a fine pagina. Voglio dare a lui e al Basement project di Fondi la dose giusta di spirito critico amalgamata a sprazzi di fantasia e curiosità. E con una sorta di messaggio promozionale vi invito a partecipare alla mostra che si terrà presso la BASEMENT PROJECT ROOM di Fondi il giorno 25 Aprile dal titolo “Etnik&Millo. Due scuole che si incontrano in strada”.

E chissà che la vostra seconda signora non riesca a “scippare” qualche nuovo schizzo ai due artisti presenti, da aggiungere al suo “acchiappa opere” (per sapere cosa sia vedi sproloquio della settimana scorsa). Stay tuned.