Strano titolo ho dato questa settimana al mio intervento. Questa frase a volte usata in senso esclamativo, altre con accezione interrogativa è ripiombata spesso nei miei pensieri. Chiedevo a me stessa cosa stessi effettivamente guardando e se oltre la semplice visione ci fosse un mondo irreale che potevo trovare e descrivere.

Il primo in ordine di apparizione è stato Alexey Luka, il russo, nazionalità che mi rendeva contenta a prescindere come chi mi conosce, sa. L’ho visto arrivare in sella ad una bicicletta e mi ha fatto subito pensare a Tin Tin, poi però è sceso e mi sono resa conto che l’altezza era spropositata rispetto al personaggio al quale lo avevo associato. Alla mia richiesta di un disegno sul quaderno “acchiappa opere”, ha risposto “For sure”. È stato subito amore.

I suoi lavori, uno a Terracina e l’altro ad Arce, sembrano tasselli, come costruzioni multiple con le quali ci si può inventare di tutto: un artista/inventore che mette insieme piccoli pezzetti. In un disegno costruisce dei volti, in altro un corpo. Note di colore davvero appassionanti, tali che si potrebbe insegnare la geometria attraverso le sue opere. Poi dipinge occhi, come quelli che ci sono nei quadri dalle orbite vuote dalle quali nei film di fantasmi si viene osservati. Crea nuvole, in cui ognuno di noi può vedere ciò che vuole. Sedetevi di fronte ai suoi muri ed immaginate, magari ascoltando un pezzo dei Beirut, Carousels, anche se forse domani vi direi un altro brano.

Poi c’è Seth, principe azzurro per il suo capello incolto biondo e per la “purezza umana” di ciò che disegna: un “piccolo principe”.
Come Attraverso lo specchio di Lewis Carroll, nel nostro specifico caso potremmo definire i suoi lavori “attraverso l’arcobaleno”. Chissà cosa ci sarà mai aldilà. Cosa vedono i due personaggi, uno proiettato verso il cielo uno verso il suolo?
Un viso, come un sasso,che rompe la tensione superficiale di questa dimensione per affacciarsi in un mondo “memorabilia”, creando un onda d’urto attorno a sé.

Un lavoro che crea un oltre, che supera la ragione. Piccoli giganti dalle sembianze infantili, con lo sguardo immerso in un altro infinito che dormono o sono impegnati a dipingere un universo parallelo nel quale sono immersi: un mondo fatto di colori. Talvolta sono senza volto o sono coperti da una maschera, spesso hanno occhi grandi, larghi, profondi e ci guardano quasi a pretendere che la loro bellezza venga rispettata. Quando non ci stanno osservando, guardano l’orizzonte, magari in un punto dove il cielo e il mare diventano una cosa sola. In quell’oltre, che a noi non è concesso vedere, potrebbe essere che stiano ascoltando Horchata dei Vampire Weekend.

Agostino Iacurci: avere un talento come il suo e restare con i piedi per terra non deve essere facile. Ti viene da pensare a come faccia, non si può dire che un suo lavoro sia più o meno bello di un altro, tutti magniloquenti e sarebbe difficile sceglierne uno. Il suo lavoro ad Arce è una sorta di “barone rosso” rivisitato: aereo di cartone, girandola, vestiti che dai colori ricordano quasi un mondo medievale, ed occhiali e copricapo da aviatore americano. Lenti con riflesso un oscuro firmamento. Anche in pieno giorno lui vede gli astri, tutto intorno alberi e un vulcano sputa fuoco. Dire altro sul suo lavoro sarebbe solo riduttivo, basta guardare quello che fa per capire che pensare in grande non è un’esagerazione. Genio e follia, punto. Una piccola nota di colore, che ho catturato durante la conference Human Landscape a Terracina: Agostino ha raccontato, intervenendo come relatore, di come sia nato A-Renato a Memorie Urbane 2012. Un signore, dopo giorni di polemiche perché non capiva il senso del suo lavoro, provò a immaginare che il soggetto non fosse altro che il dio Serapo spiaggiato. Incredibile come il suo lavoro riesca a coincidere con la storia, la fantasia e l’immaginario di un posto.
Chissà se l’Homo paleolicus di Arce viaggerebbe ascoltando Chicago o Casimir Pulasky Day di Surfjan Stevens.

Poi c’è lei, la mia ciliegina sulla torta: Hyuro, la “scrittrice” di Memorie Urbane. L’ho già detto. Lei non disegna, racconta. Parla di tematiche molto importanti sull’universo femminile, con delicatezza e decisione. Combatte con le armi del garbo ed dell’intelligenza. Nel suo ultimo lavoro a Gaeta, è tutto un articolarsi di donne e scale, a terra e in alto, immagine della precarietà che avvolge l’essere femminile. Costrette nei ruoli, ingabbiate nei simboli, circondate da superficialità, lei non si tira indietro e ci mostra tutto. Crea immagini forti, senza scandalizzare ma facendo scoccare una freccia proprio nel punto più interno del cervello, con precisione. Un lavoro che a passarci di fronte da donna ti ci confronti, accenni un mini sorriso di imbarazzo perché sai che quella donna che lei ha ritratto sei anche tu, in prima persona.
Un’artista all’apparenza integerrima, sempre molto concentrata, ma anche estremamente intelligente e piuttosto spiritosa. Comprensione della propria condizione di donna che cerca di cambiare il mondo a colpi di pennello. Ci poteva stare un brano dei Songs Ohia, ma preferisco non strafare. Sul mio quaderno ha lasciato un sorriso, forse a testimoniare qualcosa di mutato in lei, o qualche battaglia vinta. Chi può dirlo.